venerdì 13 dicembre 2024

Verifiche in Classe 1 o 2 ma q = 1-1.5?



Premessa 

Ho ricevuto una richiesta su Linkedin, questa:


Buongiorno Ingegnere.
Ho un’altra questione molto interessante (secondo me) da porle. Nessuno ha saputo darmi una indicazione precisa se non quella di fare ciò che viene prescritto dalla Normativa (NTC2018) senza però sapere il perché.


Quando si calcolano le strutture non dissipative in calcestruzzo armato quindi q=1 o, al più, a 1,5, la normativa richiede di calcolare queste strutture in campo elastico o sostanzialmente elastico.
Ciò, a parere mio, è legato al fatto che per le strutture non dissipative non si eseguono controlli di duttilità e non è richiesto il rispetto delle prescrizioni normative per i nodi, i quali non necessitano (rispetto a quello che dice la normativa) di essere verificati.
Non essendoci nella struttura parti che possono plasticizzare è meglio che, quindi, essa rimanga integralmente in campo elastico.
Ciò significa che una volta fatta l’analisi e determinate le sollecitazioni se io voglio verificare una sezione di una trave o di un pilastro (a flessione o a pressoflessione) vado a limitare la deformazione dell’acciaio al 1,87 per mille è quella del calcestruzzo al 2 per mille.

Cosa diversa invece è per le strutture in acciaio.
La norma al punto 7.5 dice che per le strutture in acciaio bisogna rifarsi a quanto riportato nel capito 4 senza alcuna prescrizione aggiuntiva.
Ciò significa che se la sezione che io sto analizzando e verificando è di classe 1 o 2 posso verificarla in campo plastico. Altrimenti devo limitarmi al campo elastico.
Questo mi crea un po’ di dubbi.
Anche se la struttura è in acciaio e non dissipativa io non vado a verificare nessun dettaglio costruttivo riguardo ai nodi e non applico nessun criterio di gerarchia delle resistenze.
Quindi, a rigore, in analogia con il calcestruzzo sarebbe meglio tenere tutta la struttura in campo elastico qualsiasi sia la classificazione di sezione degli elementi che la compongono.
Questo perché se io la verifico in campo plastico sto ammettendo, implicitamente, che ci siano delle plasticizzazioni da qualche parte e non essendoci dei dettagli in grado di dissipare sto (a mio parare) facendo peggio.

A quanto pare però per la normativa non c’è analogia tra calcestruzzo e acciaio e non riesco a capire il perché.

Lei si è fatto qualche idea a riguardo? Cosa ne pensa?
Non c’è un’analogia tra calcestruzzo e acciaio?
La differenza a cosa è dovuta? Perché quelle in calcestruzzo devo limitarle integralmente al campo elastico e quelle in acciaio no?
La ringrazio e le auguro una buona giornata.

Lorenzo Veronese


L'Autore mi ha autorizzato a fare il suo nome, cosa che del resto mi pare giusto dato che la domanda è
pertinente e intelligente.

Il metodo q

Come ho già avuto modo di dire altrove, il metodo che consiste nel dividere lo spettro di risposta elastico per un fattore q maggiore di 1 è un metodo fortemente approssimato. Un solo numero tenta di ricomprendere fenomeni molto diversi. Inoltre, in presenza di smorzamenti concentrati, il trucco di adoperare q diversi per diversi modi è privo di base teorica, dato che in presenza di smorzamenti concentrati il sistema non è disaccoppiabile.
    Valori di q alti, diciamo da 2 in su, implicano cospicui risparmi in termini di resistenza plastica, ma, al tempo stesso, necessitano che i cicli plastici siano garantiti. A sua volta questo vuol dire che sia localmente che globalmente, la struttura deve poter assorbire spostamenti e deformazioni elevate, mantenendo inalterate, o poco alterate, le caratteristiche dissipative. Ciò implica che non vi sia instabilità, né locale né globale, che non vi sia fratturazione per eccesso di deformazione o per fatica oligociclica, che gli effetti P-Δ siano relativamente contenuti, che i cicli dissipativi mantengano grosso modo inalterate le loro caratteristiche all'aumentare del numero di cicli, ecc. ecc.. Non è banale.
    In campo dinamico, la schematizzazione quasi-statica occulta un mare di questioni che invece la struttura reale dovrà affrontare.
    Se il fattore di struttura è pari a 1 o al più 1.5, le richieste sono decisamente inferiori.
    Nel caso di q strettamente eguale a 1, lo spettro adottato è quello elastico senza riduzioni. In teoria ciò sarebbe a favore di sicurezza, ma ci sono un po' di questioni da avere ben chiare.
    In primo luogo, se lo scopo è fare strutture resistenti ai veri sismi, non ci si potrà esimere di considerare che la valutazione PSHA della pericolosità si fonda su metodi privi di rigorose basi geofisiche. Quindi, potrebbero arrivare sismi decisamente diversi, sia per la intensità, sia per il contenuto in frequenza, rispetto a quelli del "periodo di ritorno" fissato per legge.
    In secondo luogo, dimensionamento elastico non vuole dire che i cicli di carico e scarico non ci siano. Quindi, bisogna ben considerare prima di tutto la possibile inversione del segno delle sollecitazioni, la quale può comportare, a parità di valore assoluto, effetti be diversi sulla nostra struttura: per la instabilità e non solo. Da notare che, dato che una modale con spettro combina i modi mediante metodologie (SRSS, CQC) che fanno perdere il segno, bisogna ben stare attenti a che la natura intrinsecamente ciclica e dinamica della sollecitazione sismica sia pertinentemente tenuta in conto. Già una semplice THM mette al riparo da questo rischio (purché il numero e il tipo dei segnali siano pertinenti: il numero, perché devono essere tanti; il tipo, perché gli unici segnali davvero pertinenti sono quelli che partono dagli scenari sismici locali e tengono conto del sito).
    Nel caso di q= 1.5, si tiene conto che "una qualche dissipazione" ci deve pur essere, e così si abbattono ai 2/3 le ordinate dello spettro elastico. Non è poco. La dissipazione che si chiama implicitamente in causa, però, non è quella strutturale, ma piuttosto quella legata alla "sofferenza" delle parti non strutturali, le quali sono costrette a seguire i cicli e le deformazioni. Quindi, questo 0.5 in più non necessita di plasticizzazioni.

Le verifiche in classe 1 e 2

Se le sezioni sono in classe 1 o 2, il dominio limite usato per le verifiche non è quello elastico, ma è quello plastico. Avere sfruttamenti inferiori a 1 con un calcolo elastico lineare, vuol dire che la sezione verificata non ha raggiunto la piena plasticizzazione con le sollecitazioni usate per calcolarla. A sua volta, questo significa che una parte della sezione è plastica, mentre un'altra, no. Prima di scorrere in campo plastico, la sezione deve esaurire le sue risorse elastiche, che, se lo sfruttamento è inferiore a 1, essa non ha ancora sfruttato pienamente. La massima deformazione è fy/E, ovvero la deformazione di primo snervamento.
    Quindi, una sezione verificata in classe 1 o 2, con un calcolo globalmente elastico, ha ancora qualche risorsa elastica da spendere, e non ha attinto di sicuro la sua massima deformazione sezionale plastica. A causa di ciò, non vi è nemmeno stata una significativa redistribuzione, perché, sia pur diminuita, la sua rigidezza flessionale c'è ancora: non si è ancora formata una vera cerniera plastica.
    Vero è però, che la rigidezza flessionale non può più essere rigorosamente quella elastica iniziale, dato che una qualche plasticizzazione, se lo sfruttamento è tale da aver superato il limite elastico, c'è stata.
    Un calcolo rigoroso, dovrebbe essere elasto-plastico, a fibre (1), e tener conto di questa diminuita rigidezza. Ma d'altro canto, un calcolo di questo tipo non è elastico lineare e porta con sé tutte le complicazioni del calcolo non lineare, prima tra tutte la perdita di applicabilità del principio di sovrapposizione degli effetti.
    Se immaginiamo di fare una verifica sismica, con sezioni in classe 1 o 2, si possono dare questi tre casi:
  1. Le verifiche sono soddisfatte e non vi è superamento del limite elastico. In questo caso la sezione è in classe 1 o 2 ma avrebbe potuto essere anche in classe 3 e le verifiche sarebbero state egualmente soddisfatte. In questo caso la domanda posta dal collega non si applica. Comunque, per le ragioni che chiarisco più sotto, è un bene che le sezioni siano in classe 1 o 2.
  2. Le verifiche non sono soddisfatte. In questo caso la sezione andrà modificata.
  3. Le verifiche sono soddisfatte, ma vi è un certo qual sforamento del limite elastico. In questo caso, il calcolo globale elastico è a rigore sbagliato, perché una certa qual modifica alla rigidezza c'è stata (in un fuso che scema allontanandosi dal picco di momento). Tuttavia, essa potrebbe essere modesta. Lo è se lo sforamento è limitato, tende a non esserlo se lo sforamento è invece marcato. Ma perché vi siano significative redistribuzioni, lo scorrimento plastico deve essere marcato, mentre noi sappiamo con certezza che una parte della sezione è ancora elastica (sempre nei limiti di validità dei nostri metodi), e dunque il depauperamento di rigidezza modesto, e la rotazione suppletiva deve essere anch'essa modesta.  La cerniera plastica non c'è, ma è come se, adottando leggi costitutive elastiche-perfettamente plastiche, in quel fuso ci fossero sezioni elastiche di dimensioni ridotte rispetto a quella originaria, sezioni che sono costituite da quella parte di sezione che è ancora elastica.
A parte il modesto errore sulle azioni interne, non ci sono problemi. E' corretto dire che a quella sezione si chiede solo di plasticizzarsi un po', ma non certo di scorrere decisamente in campo plastico, con tutto quello che ciò comporta, sia in termini di spostamento, sia in termini di deformazione, con quindi il rischio di arrivare alla rottura. C'è uno scudo, costituito dal fatto che la sezione resta in parte elastica.


Risposta alla domanda


Quindi, attingere parzialmente alle risorse plastiche di una sezione, è ben diverso che chiedere a lei e alla struttura, di scorrere decisamente in campo plastico. Molto diverso.
Inoltre, il comportamento dell'acciaio è molto più certo, stabile, reversibile e replicabile di quello del calcestruzzo, non a caso i fattori parziali sono ben diversi. 
La legge costitutiva del calcestruzzo è piena di incertezze e affetta da una miriade di fattori.

Ma cosa succede se facciamo un calcolo con q=4, e il coefficiente di sfruttamento è inferiore a 1?
In questo caso c'è da discutere.

Con q alti, noi dovremmo dimensionare la struttura:

  • o facendo un calcolo effettivamente non lineare, e allora dovremo verificare non solo che siamo sotto il moltiplicatore limite (seguendo la formazione delle cerniere plastiche, io direi solo e soltanto con modelli a plasticità diffusa), ma anche che da nessuna parte la escursione plastica sia stata eccessiva, che gli effetti P-Δ siano contenuti, e certamente anche che gli spostamenti, molto maggiori, siano dovunque assorbibili dai vincoli eccetera. Una cosa niente affatto scontata.
  • o facendo un calcolo elastico e verificando che ovunque lo sfruttamento sia inferiore a 1, ma anche assicurandoci che le prime zone a sforare siano proprio quelle dissipative da noi previste, e non altre. E che tutte arrivino contemporaneamente al limite o quasi. Quindi, che la distribuzione delle sollecitazioni sia tale da portare a sfruttamenti prossimi a 1 proprio quelle zone e non altre. Non basta, secondo me, constatare che lo sfruttamento è minore di 1. La distribuzione degli sfruttamenti deve essere coerente con il progetto, se il calcolo è lineare. E poi naturalmente, la gerarchia e la progettazione della duttilità. Anche se con un calcolo elastico lineare, non è che si veda molto. Con q alti mi verrebbe da dire che il calcolo dovrebbe sempre essere NL. Dato che la pushover su strutture reali è ampiamente insufficiente, anche se sovra-utilizzata e reputata, si va direttamente alla THNL.
Qualcuno ha sostenuto che il fatto di dimensionare con duttilità metta al riparo da possibili eccessi non previsti della domanda. Se per esempio dimensiono con q=4 e mi ritrovo che le zone dissipative da me previste aventi sfruttamento 0.98, se anche il sisma fosse più potente sarei protetto dalla redistribuzione e dalla dissipazione.
Questo può essere vero (e quindi bene sezioni in classe 1 e 2 anche con q=1) ma solo entro certi limiti. Al crescere della domanda infatti, cresce la escursione plastica, crescono gli spostamenti, cresce il rischio di raggiungere le deformazioni di rottura, e la "benzina" a disposizione, non è illimitata.
Inoltre, la durata del segnale e il suo contenuto in frequenza hanno una importanza dirimente, perchè molti cicli possono più facilmente portare a degrado, e perché il diverso contenuto in frequenza del segnale sollecita in modo diverso la struttura.
Per questo, secondo me, una THNL con molti segnali (pertinenti) è quello che dovremo fare.

Conclusione


Vorrei sottolineare che il porsi domande in merito a quello che c'è scritto nella norma, che non è né infallibile né, spesso, chiara, è sacrosanto. La norma non la hanno scritta degli dei. Può essere incompleta o sbagliata.


Ciò detto, spero di aver dato una risposta convincente. A presto.


_____________
(1) Ricordando anche l'ottimo lavoro dei Proff. Marmo e Rosati che hanno mostrato come integrando sul contorno si possano ottenere risultati migliori rispetto a quelli del classico modello "a fibre", il quae ha dei limiti.

La professione di Ingegnere Strutturista




 Italiano/English

La professione di Ingegnere Strutturista

Recentemente mi è venuto da riflettere su alcuni aspetti salienti della mia professione, per come la ho praticata e la pratico io, e per come la ho vista praticare da tanti colleghi in Italia e all'Estero.

Quando eravamo alle Scuole Superiori e facevamo i nostri compiti in classe, c'erano i Professori che ci correggevano i compiti, segnando con la matita rossa e blu gli errori che facevamo. Ricevendo la correzione, prendevamo visione dei nostri errori e questo ci serviva a imparare.

In casa, io la ho vista usare tante volte, quella matita rossa e blu, perché mia madre, che era nata nel 1929, e aveva vinto molto giovane il concorso per la cattedra al Liceo, la usava spesso: insegnava inglese.

Allora, non ci rendevamo conto, io credo, di quanto ci fosse risparmiato, con quelle correzioni, di quanto quelle correzioni ci sgravassero dal compito di trovarli da noi, quegli errori.

I compiti in seguito sono diventati esami universitari, e anche in quel caso c'era qualcuno, i nostri Professori, che ci dicevano dove avevamo sbagliato.

Quando poi siamo diventati professionisti e abbiamo cominciato a prenderci le nostre responsabilità, non c'era più nessuno a correggerci i compiti, in specie quando lavoravamo da soli a un certo progetto.

La professione di Ingegnere Strutturista, come anche altri tipi di Ingegneria, o altri tipi di professione, mette direttamente a repentaglio la vita delle persone. Da un nostro errore, può dipendere un crollo, possono dipendere delle stragi.

Per questo molti di noi hanno studiato materie complicate, difficili, ed hanno a loro dedicato anni e anni della propria vita, delle proprie risorse intellettuali, delle proprie forze. Per questo abbiamo sbagliato e ci siamo corretti mille volte, per questo abbiamo inciso nel nostro cervello un modo di procedere rigoroso e attento. E non ci basta, no, non ci basta, che sulla noma tal dei tali sia scritta una certa cosa, perché il nostro obiettivo non è essere protetti dai possibili errori, sviste, manchevolezze altrui. No. Il nostro compito è proteggere le vite delle persone che fruiranno della nostra attività professionale.

Ma la nostra professione ha un che di subdolo e di tremendo in più. Se un chirurgo sbaglia a operare gli effetti si vedono subito. Se un pilota di aereo sbaglia una manovra, o un atterraggio, l'effetto è immediato. In quel caso, le decisioni vengono prese in poche frazioni di secondo, e per fare questo, serve un training specifico.

Per noi, è diverso.

Abbiamo in genere tempo, talvolta molto tempo, per decidere, considerare, riconsiderare. E poi, una volta che il nostro progetto, il nostro calcolo, la nostra decisione sono diventati operativi, tutto può ancora succedere, per anni, anni e anni.

E' per questo che molti, come me, dopo aver fatto una cosa, averla controllata e ricontrollata, fatta e rifatta, la notte, non dormono. E si dicono: ma non è che ho sbagliato lì? Ma non è che quel foglio EXCEL, quel programma, quel calcolo, quella operazione, quel modello, è sbagliato?

E così, il disturbo ossessivo-compulsivo di controllare e ricontrollare, di mettere sempre in dubbio quello che si è fatto, di aver timore di aver commesso un errore, e nondimeno di avere il coraggio di andare a controllare, anche quando ormai è tardi, ci accompagna costantemente. Perché sappiamo che un errore noi, non ce lo possiamo permettere.

Né possiamo tirare a indovinare, noi. Ogni cosa, la dobbiamo controllare. Ogni singola cosa. E questo, costa fatica, sacrifici, porta via tanto tempo. Le nostre vite ne sono segnate. Mentre per altri, altre professioni, è diverso. Molto diverso.

Nessuno, di solito, viene a correggerci il compito. Noi dobbiamo correggerci il compito.

E dopo avere visto e rivisto, controllato e ricontrollato, a un certo punto diciamo, dobbiamo dire: è giusto. E' così. Mi assumo la responsabilità di questo risultato.

Non invidio quelli tra noi Strutturisti (se ce ne sono) che non vivono questo tremendo processo di autocorrezione. Non invidio, francamente, la superficialità che forse qualcuno può avere, né i suoi sonni tranquilli. Queste persone, rischiano.

La mia vita di Ingegnere Strutturista è tormentata, come penso quella di tanti colleghi. Sono abituato, per lavoro, a dover cogliere ogni minima sfumatura, a una comunicazione esatta, che non lasci spazio a dubbi, e quando nella vita di tutti giorni questa deformazione professionale emerge, mostrandomi che la maggior parte della gente dice e si contraddice, afferma e nega, senza rendersene conto, e mi mette nella condizione della persona rigida e arida, io non mi arrabbio più.

Un tempo, cercai di convincere la moglie, il figlio, il fratello, che quanto avevano detto non era coerente. Poi, dopo tanti anni, ho capito che io, come molti colleghi, vivo una dimensione particolare.

Io gli errori non me li posso permettere. E se li faccio, nonostante tutto, devono essere rari, e devo poter dire, prima di tutto a me stesso, ho fatto di tutto per intercettare quell'errore. Se mi è sfuggito, forse ne ho la colpa, ma certo, non è stato per superficialità.

Questa, è la mia professione. Una professione di cui sono orgoglioso indipendentemente da quanto la società intorno a me ne ne dia atto, indipendentemente dai guadagni e dai riconoscimenti, che di solito, vanno da altre parti.

Il mio mestiere, è ragionare in modo logico, razionale e non contraddittorio.

Il mio mestiere, è proteggere, direttamente o indirettamente, la vita delle persone.


The profession of Structural Engineer

Recently, I found myself reflecting on some salient aspects of my profession, as I have practiced and continue to practice it, and as I have seen it practiced by many colleagues in Italy and abroad.

When we were in high school and doing our classwork, there were teachers who corrected our work, marking our mistakes with red and blue pencils. By receiving corrections, we became aware of our mistakes, and this helped us learn.

At home, I saw that red and blue pencil used many times, because my mother, who was born in 1929 and had won a teaching position at a high school at a very young age, often used it: she taught English.

Back then, I believe, we did not realize how much was being spared us with those corrections, how much those corrections relieved us from the task of finding those mistakes ourselves.

Assignments later turned into university exams, and even then, there was someone, our professors, who told us where we had gone wrong.

When we became professionals and started taking on our responsibilities, there was no longer anyone correcting our work, especially when we worked alone on a particular project.

The profession of a Structural Engineer, like other types of engineering or other professions, directly puts people's lives at risk. From one of our mistakes, a collapse can occur, massacres can happen.

For this reason, many of us studied complicated, difficult subjects and dedicated years and years of our lives, intellectual resources, and strengths to them. For this reason, we made and corrected mistakes countless times, and we engraved a rigorous and careful method of proceeding into our brains. And it is not enough, no, it is not enough, that a certain thing is written on a particular standard because our goal is not to be protected from the possible mistakes, oversights, or shortcomings of others. No. Our task is to protect the lives of the people who will benefit from our professional activities.

But our profession has something insidious and terrible in addition. If a surgeon makes a mistake in surgery, the effects are seen immediately. If an airplane pilot makes a mistake in a maneuver or landing, the effect is immediate. In those cases, decisions are made in fractions of a second, and for that, specific training is required.

For us, it is different.

We generally have time, sometimes a lot of time, to decide, consider, reconsider. And then, once our project, our calculation, our decision has become operational, anything can still happen, for years and years.

That is why many, like me, after having done something, checked and rechecked it, done and redone it, cannot sleep at night. And we say to ourselves: but didn't I make a mistake there? But isn't that EXCEL sheet, that program, that calculation, that operation, that model, wrong?

And so, the obsessive-compulsive disorder of checking and rechecking, of always doubting what has been done, of fearing to have made a mistake, and yet having the courage to check, even when it is too late, accompanies us constantly. Because we know that a mistake for us is not an option.

Nor can we guess, we must check everything. Every single thing. And this takes effort, sacrifices, takes away a lot of time. Our lives are marked by it. While for others, other professions, it is different. Very different.

No one usually comes to correct our work. We have to correct our own work.

And after having checked and rechecked, at a certain point, we say, we have to say: it is right. It is so. I take responsibility for this result.

I do not envy those among us Structural Engineers (if there are any) who do not live through this terrible process of self-correction. I do not envy, frankly, the superficiality that perhaps someone may have, nor their peaceful sleep. These people are at risk.

My life as a Structural Engineer is tormented, as I believe that of many colleagues is. I am used, for work, to having to grasp every little nuance, to exact communication that leaves no room for doubt, and when in everyday life this professional deformation emerges, showing me that most people speak and contradict themselves, affirm and deny, without realizing it, and puts me in the position of a rigid and arid person, I no longer get angry.

At one time, I tried to convince my wife, my son, my brother, that what they had said was not consistent. Then, after many years, I realized that I, like many colleagues, live in a particular dimension.

I cannot afford mistakes. And if I make them, despite everything, they must be rare, and I must be able to say, first of all to myself, I did everything to catch that mistake. If it escaped me, maybe it is my fault, but certainly, it was not due to superficiality.

This is my profession. A profession I am proud of regardless of how much the society around me acknowledges it, regardless of earnings and recognition, which usually go elsewhere.

My job is to reason logically, rationally, and non-contradictorily.

My job is to protect, directly or indirectly, the lives of people.