venerdì 2 novembre 2018

Ponte Morandi: la crisi di un sistema

Nel precedente post ho esaminato in dettaglio la natura del sistema bilanciato del ponte Morandi, per far comprendere a chiunque che si trattava di un'opera al di fuori dei canoni di sicurezza che oggi sarebbero considerati minimi (percentuali di armatura, ridondanza, robustezza, ispezionabilità, resistenza al sisma, distanza dagli edifici, eccetera).
Chiunque avesse studiato a fondo il sistema bilanciato disponendo delle necessarie competenze tecniche avrebbe compreso che era un sistema a scatto con timer.
Il conto alla rovescia era legato alla esistenza della corrosione nei cavi principali degli stralli, ma era anche legato al possibile distacco e alla possibile caduta della trave tampone (quella che collega due sistemi bilanciati successivi in semplice appoggio), sorretta soltanto dalle selle Gerber, sistemi notoriamente soggetti a degrado per aggressione chimico-fisica.
Era quindi ovvio, e altrettanto necessario e imprescindibile, intervenire con tempestività prima che la molla scattasse.
Sebbene non fosse nota la estensione della corrosione (anche per la carenza di adeguate indagini ispettive), era noto da anni, anni ed anni che la corrosione fosse iniziata. Era noto a tutti.
Gli attori coinvolti - in 50 anni - furono grosso modo tre: il concessionario, il concedente, i vari consulenti.
Il lasso di tempo passato dalla costruzione è troppo lungo per poter pensare che le disfunzioni che hanno consentito che alla fine la molla scattasse siano episodiche e limitate. Una tale impressione si coniuga perfettamente con la vivida sensazione che i sistemi deputati alla progettazione, controllo, manutenzione, ispezione ed analisi delle strutture civili siano in questo Paese gravemente ed urgentemente bisognosi di una profonda riforma.

Questa era la conclusione alla quale ero giunto, più di quattro anni fa, quando scrissi il mio libro Validazione Strutturale, un libro che si è rivelato tragicamente profetico.

Se dopo il crollo del sistema bilanciato 9 del viadotto sul Polcevera, tutto quello che succederà sarà la messa in stato di accusa e la condanna di un gruppo di persone, il vero problema chiaramente denunciato dal crollo non sarà stato affrontato.

Qui c'è da cambiare quasi tutto.

La prima cosa che manca, e che è urgente ripristinare mediante specifiche azioni di governo, è la consapevolezza di una serie di verità ovvie che nella pratica si è persa, anche a causa di una serie di normative sbagliate, unite a malcostume. Queste ovvie verità sono le seguenti:

  1. Le strutture civili sono fondamentali e possono mettere a rischio la vita delle persone ed i sistemi economici di borghi, città, province e persino regioni. Il Paese non può permettersi che vadano in rovina.
  2. Non è accettabile alcuna situazione di degrado diffuso in opere di ingegneria civile (edifici, ponti, stabilimenti produttivi, strade), né il loro stato di abbandono. Ogni opera deve essere soggetta a valutazione e manutenzione e qualcuno competente deve essere responsabile di tale manutenzione.
  3. Gli interventi (che spesso sono manomissioni) su strutture di ingegneria civile, devono essere fatti solo da persone competenti. Il Far West delle ristrutturazioni e degli abusivismi deve finire subito.
  4. L'abusivismo e la sua sanatoria implicano la accettazione implicita della pericolosità ed insicurezza delle strutture, nonché la violazione delle norme tecniche, e quindi contribuiscono in modo determinante a diffondere idee sub culturali e arcaiche in merito a cosa sia la sicurezza strutturale, e a cosa possa essere considerato sicuro o no.
  5. L'ingegneria strutturale (ormai tra l'altro sempre sismica) è una branca specifica della ingegneria civile che richiede veri specialisti. Non è sufficiente una laurea breve. Non è sufficiente una laurea in architettura senza documentati e seri studi ulteriori. Non è sufficiente una laurea in ingegneria. Ciò implica una profonda riforma del sistema delle competenze e degli ordini professionali. Non tutti possono fare tutto. Il sistema attuale è profondamente inadeguato.

giovedì 25 ottobre 2018

Il ponte Morandi era un ponte sbagliato e pericoloso, ab initio

Dettagli evidenziati: a sinistra una sezione di calcestruzzo praticamente priva di acciaio di armatura, il bordo liscio fa pensare a  una importante discontinuità di costruzione (ripresa di getto); a destra la incredibile sottigliezza delle pareti del cassone pluricellulare che costituiva il biscotto Morandi. Ogni rettangolo è circa 3 metri di larghezza per 4-4,5 di altezza, lo spessore era di 16 cm al lembo superiore e a quello inferiore.
Sono due mesi che quando posso continuo a studiare il sistema bilanciato del ponte Morandi. Ormai credo di essermi fatto una idea piuttosto precisa non solo di come funzionasse veramente, ma anche di tutti i suoi numerosissimi limiti, e ciò senza pregiudicare alcuna altra considerazione in merito alla mancata o errata manutenzione di questo ponte, che sicuramente stando a quanto si è letto ha avuto molta importanza. 

Io qui vorrei esaminare l'opera per come era.


Le foto lo indicano chiaramente, che di acciaio ce n'era pochissimo. Che i cassoni dell'impalcato erano sottilissimi. E il prof. Morandi, di aver usato poco acciaio dà precisa notizia (1)(2), considerando questo, evidentemente, un buon risultato. 
Si è rotto come una costruzione di  biscotti spezzati uno dopo l'altro, il suo ponte, senza nessuna duttilità. Nessuna capacità di adattamento: un intero sistema bilanciato è crollato tutto, e non si è salvato nulla.
Dicono, per difendere questo ponte, che allora non si usava fare le strutture duttili, che allora era normale non farle ridondanti, che era normale costruirle sulla testa delle persone. Allora.
Ma una volta era normale anche usare il lavoro minorile, e i ragazzini portavano i pesi a sette anni. Una volta c'era lo schiavismo. Una volta gli operai andavano su, nei cantieri, senza nessuna protezione. E una volta - negli anni '50 - si provavano farmaci potenzialmente pericolosi sui malati di mente.
Tuttavia, non tutti i medici facevano quegli esperimenti, non in tutti i cantieri gli operai andavano senza protezione. E non tutte le famiglie povere mandavano i figli a lavorare a sette anni. Non tutte le imprese li utilizzavano. E non tutti i ponti sono stati costruiti, settanta o cento anni fa, con i criteri usati da Riccardo Morandi, assolutamente sconsigliabili e errati, per diverse ragioni.

Qualcuno vorrebbe che il ponte fosse ricostruito identico e lo considera un monumento, un'opera d'arte da conservare: ma secondo me sarebbe uno sfregio ai morti e alla città di Genova, e inoltre un pessimo insegnamento per le scuole di ingegneria del Paese. Invece, da questo crollo, noi dobbiamo trarre tutti i necessari insegnamenti e non dobbiamo farci arrestare da nessun timore reverenziale, andando a scovare tutte le criticità, nessuna esclusa. Tra le criticità c'è anche un ponte mal concepito, esasperatamente volto al risparmio di materiale in un momento, la metà degli anni '60, in cui il Paese era ormai ben lontano dalle stringenti esigenze del dopoguerra, quando occorreva spesso fare di necessità virtù.

Abbiamo il dovere di dire che nello spingere il risparmio di materiale al massimo, e nel concepire sistemi così fragili, Morandi era suo malgrado un cattivo maestro, e la sua ingegneria nel viadotto sul Polcevera, suo malgrado, una pessima e mal riuscita ingegneria. Dobbiamo proteggerci dai cattivi esempi e dobbiamo metterli chiaramente in luce, senza possibili equivoci e senza il rischio di lodare soluzioni sbagliate. Progettare come fece il professor Morandi è pericoloso e sbagliato, nessuno deve progettare in questo modo. Questo si deve dire. Questo va detto.

Il ponte sul Polcevera è simbolo di calcolo a senso unico, di eccesso di fiducia nella validità assoluta delle proprie assunzioni, di futile risparmio, e a causa di tutto ciò, di una sostanziale mancanza di autentico riguardo verso la popolazione civile (soprastante e sottostante), che era esposta a un rischio considerevole, sempre maggiore con il passare del tempo (i lustri e lustri di vita che una tale opera implicitamente doveva avere e dei quali il progettista doveva tener conto).

In questo senso, il ponte Morandi è sì un simbolo, ma in negativo. Un'opera di ingegneria civile deve sempre avere in mente la popolazione che la usa, ed il criterio della sicurezza deve sempre prevalere su quello del risparmio. Invece qui si ha l'impressione che si sia voluto spingere il risparmio di materiale ben al di là del lecito, quasi ci fosse una competizione a riguardo e un premio da vincere. Il che è contrario ai principi di base di ogni buona opera di ingegneria civile. E poi: perché? Quale la ragione prima di una tale corsa al risparmio?

Si resta sconcertati nell'apprendere che per decenni questo ponte sia stato considerato un alto esempio di ingegneria, e che ancora oggi qualcuno lo consideri tale. Evidentemente, questo qualcuno, o non dispone delle conoscenze tecniche necessarie a comprendere come funzioni veramente questo ponte,  o non ne ha studiato i dettagli anche guardando con attenzione le foto delle macerie, o è obnubilato tanto da non vedere i suoi enormi difetti. E così è stato per decenni: come è possibile? Cosa viene effettivamente insegnato?

Io non lo conoscevo, questo ponte, e ho cominciato a studiarlo dopo il crollo, rimanendo giorno dopo giorno sempre più stupefatto delle sue numerosissime mancanze, della sua temeraria incoscienza. Qualcuno deve prendere le parti delle persone che lo hanno usato, che lo hanno avuto sulla testa, quel ponte. Un'opera di ingegneria civile non è un esercizio di meccanica razionale o di scienza delle costruzioni. Le opere di ingegneria civile servono le persone, non il contrario. Nel progettarle, prudenza, dubbio sistematico e temperanza sono obbligatori. Oggi, ma anche ieri. A mio parere questa prudenza e questo dubbio sistematico non ci sono nel progetto del viadotto sul Polcevera.

Io, in questo post, vorrei spiegare come il sistema bilanciato funzionasse nel modo più chiaro possibile, in modo che tutti possano capire quanto fosse azzardato e incosciente. Userò quindi una terminologia domestica, e non starò a riempire il testo di citazioni e virgolettati. Tutto quanto scrivo, comunque, è suffragato da riscontri.


Se prendiamo un biscotto e lo flettiamo, questo si spezza facilmente perché non resiste a trazione, come il calcestruzzo. Se lo tiriamo, idem: si spezza. Se invece lo comprimiamo tra pollice ed indice, non troppo, resiste. Se è tozzo resiste anche bene. Questo è il principio alla base delle strutture in calcestruzzo armato precompresso, aggiungere una compressione a una trazione, in modo che la trazione sparisca. Infatti il calcestruzzo non armato, come il biscotto, non resiste a trazione e, per sopperire a questo inconveniente, o lo si precomprime, o lo si infarcisce di barre di acciaio, affidando a loro il compito di resistere alla trazione.

Un pesante biscotto quasi non armato lungo 170 metri circa, sostenuto in 4 punti: l'impalcato del sistema bilanciato. Qui sopra passavano macchine e camion, da 50 anni.


Il sistema bilanciato del ponte Morandi è un lungo e pesante biscotto di calcestruzzo che si appoggia in quattro punti. Due punti sono costituiti da strutture sottostanti, in cemento armato, esiline e poco armate, ma alte 40 metri. Gli altri due, alle due estremità, sono appoggi strani: il ponte-biscotto si appoggia a degli "stralli", ovvero a dei cavi principali tesi, che lo tirano su, lui che vorrebbe andare giù e piegarsi a causa del suo enorme peso.

Molta gente, ingannata dal fatto che Morandi parla di stralli precompressi, ha creduto che gli stralli fossero sostanzialmente compressi, ma non è assolutamente vero (la questione degli stralli compressi la spiego tra poco). In buona sostanza la parte più importante degli stralli, ovvero la loro anima costituita da 352 trefoli di acciaio, era tesa come una qualsiasi corda, e questa tensione sosteneva tutto l'enorme peso della parte a sbalzo ponte. Se lo strallo fosse stato compresso, avrebbe tirato giù il ponte, non lo avrebbe sostenuto.

Una pila di monete compresse può sostenere un peso: tolta la compressione cade tutto

Questa trazione dei cavi principali era però inclinata, e quindi si trasformava da una parte in una forza verso l'alto che sosteneva il ponte-biscotto, dall'altro in una forza che comprimeva il ponte-biscotto stesso.

Benissimo, dice il progettista: dato che il mio ponte ora è compresso, lo posso inflettere senza molti problemi, proprio come avviene quando prendo una pila di monete e la schiaccio tra pollice e indice: le monete possono sostenere un peso. E l'impalcato del ponte Morandi, ovvero la strada sui cui passavano le macchine e i camion e che doveva sostenere il suo enorme peso, "risulta praticamente privato di armatura" (3) come dice orgogliosamente Morandi, per il quale evidentemente aver risparmiato sull'acciaio era un bel risultato. L'armatura era sostanzialmente applicata solo alle zone di appoggio.


Blocchi di calcestruzzo privi di armatura. Dettaglio di cassone pluricellulare, pareti senza armatura visibile


Quindi possiamo comprendere che l'impalcato del sistema bilanciato del ponte Morandi, era un pesante biscotto quasi privo di armatura lungo circa 170 metri ed alto tra 4.5 metri e poco meno di 4 metri, che stava su solo perché era compresso a causa della trazione dei cavi, e sostenuto sempre dalla trazione dei cavi. La trazione dei cavi dello strallo aveva due effetti fondamentali:
  1. esercitava una forza verticale verso l'alto sul ponte, proprio come se fosse un appoggio.
  2. esercitava una forza di compressione sul calcestruzzo, donandogli una resistenza alla flessione che da solo senza una ingente armatura mai avrebbe avuto, proprio come un biscotto.

Finché durava.

Perché proprio come smettendo di schiacciare le monete queste cadono giù, così il biscotto-Morandi, se non fosse più stato schiacciato, sarebbe venuto giù. Non sarebbe stato necessario che la (pre)compressione cessasse del tutto: sarebbe stato sufficiente che diminuisse un po', per esempio del 10, del 20 o del 30%. In questo caso, le monete sarebbero lo stesso cadute giù.

Quindi c'era una doppia causa scatenante il crollo, se quei tiranti avessero smesso di tirare quanto dovevano.


Il sistema bilanciato è un arco che incassa la freccia e non la scocca. I 4 triangoli sono un simbolo che vuol dire "appoggio" (immagine tratta dalla relazione del MIT, opportunamente modificata).

Passiamo ora a esaminare come gli stralli erano effettivamente costruiti. In primo luogo - su ogni lato del ponte: Sud/Mare, Nord/Valle-, non c'erano due stralli ma sostanzialmente uno strallo solo. Infatti, i cavi principali erano fatti passare sopra la pila, come in un gigantesco arco che, anziché scoccare la freccia, la incassa. La pila agiva come una freccia sospinta verso l'alto dalle reazioni esercitate dal terreno, 90 metri più in basso.
Il fatto che vi fosse continuità nello strallo GE-SV, su ciascun lato (Sud/Nord), voleva dire che un qualsiasi problema a un trefolo in un qualsiasi punto lungo i suoi 180 metri di sviluppo, si sarebbe trasformato nella totale inattivazione del trefolo, sia sul lato Genova che sul lato Savona. Quindi, tutto il vitale sistema che sorreggeva il ponte-biscotto era un unico sistema, e un danno in un qualsiasi suo punto avrebbe inattivato la parte attaccata lungo tutto il suo sviluppo.
Per poter essere ben teso, l'arco riceve una spinta verso l'alto dalla freccia-pila, che a sua volta è spinta verso il basso dallo strallo-corda e quindi fortemente compressa.
Spezzone del grissino-pila praticamente privo di armatura e in più, cavo. Le frecce bianche indicano l'armatura perimetrale, tra l'altro quasi priva di copriferro. I cerchi rossi indicano che il calcestruzzo, all'interno, non era affatto armato. 

Uhm, altra compressione, questa volta nella pila. Allora: poca armatura! E infatti le fotografie delle rovine mostrano che le gambe delle V capovolte che formano la pila, erano pochissimo armate, e per di più cave. Erano, a loro volta, degli enormi biscotti compressi, o forse, meglio, dei giganteschi grissini.
Se per qualche motivo avessero dovuto resistere a un po' di flessione, per esempio per un tiro sbilanciato degli stralli, ebbene, si sarebbero rotte come giganteschi grissini: come infatti è avvenuto.
Le pile-grissini, non erano collegate all'impalcato (la strada). Erano due V capovolte, e inclinate su un piano verticale, collegate in cima da un traversone.

Fino a questo momento abbiamo visto montare una gigantesca molla-arco, caricata da grossi grissini-freccia, e sorreggente un pesante biscotto di 170 metri. Il tutto, lo ricordo, montato sopra le teste di ignari cittadini che abitavano i palazzi ora evacuati.
Precompressione del calcestruzzo grazie alla trazione dei cavi secondari

Veniamo ora a comprendere l'altra specifica invenzione, fatta da Morandi: gli stralli precompressi.
Dato che uno dei timori per l'acciaio è che la ruggine lo corroda, Morandi inventa una specie di involucro in calcestruzzo che vuole a tenuta d'umidità e acqua.

Le forze rosse sono di trazione. Le forze verdi di compressione. Il calcestruzzo è compresso. I cavi secondari tesi. La somma della compressione nel calcestruzzo e della trazione nei cavi secondari dà zero. Lo strallo è quindi complessivamente teso, grazie alla trazione dei cavi principali.
Quindi avvolge i cavi principali tesi da questo involucro e applica, alle due estremità dell'involucro, una forza che schiaccia l'involucro comprimendolo. In questo modo, secondo lui, i cavi principali d'acciaio, che reggono lo ricordo tutto quanto, vengono ad essere protetti da uno scafandro impenetrabile alla umidità e all'acqua. Quindi, pensa Morandi, i cavi d'acciaio non si corroderanno mai.

Questa idea era sbagliata.

Già negli anni '40 Sandro Dei Poli aveva pubblicato un libro, in Italia, in italiano, - Crolli e Lesioni di Strutture 1942-XX, Hoepli-, recentemente ripubblicato da EPC, nel quale si mettevano in evidenza i danni causati - a Giava - dagli ambienti marini sul calcestruzzo armato. Pochi in Italia lo avevano letto, e quindi quasi tutti, incluso Morandi, nel 1968 ancora credevano alla favola del calcestruzzo inattaccabile quando ben bene compresso.
Iniezione dei cavi. Da quel momento in poi - in teoria - l'applicazione di ulteriori carichi avrebbe visto reagire lo strallo omogeneizzato come un tutt'uno.

Dopo aver compresso lo scafandro in calcestruzzo il sistema Morandi prevede di iniettare i cavi, vale a dire che i vuoti intorno ai trefoli di acciaio (principali e secondari) vengono riempiti. Almeno: in teoria. Ci sono infatti fondati motivi per ritenere che i cavi principali del Polcevera non siano stati iniettati e che siano rimasti liberi dentro una cavità protetta da un lamierino.

Da quel momento in poi, dato che - in teoria - la iniezione garantisce la solidarietà tra le varie parti, ogni ulteriore carico volto a tendere lo strallo, avrebbe visto reagire il sistema complessivo. Il calcestruzzo si sarebbe un po' decompresso, i cavi si sarebbero tesi un altro pochettino. La grande rigidezza dello strallo avrebbe fatto sì che le variazioni di tensione nei cavi, dovute ai carichi mobili, sarebbero state minime, il grosso lo avrebbe sostenuto la decompressione del calcestruzzo. Quindi, la fatica dell'acciaio non sarebbe esistita. Infatti l'acciaio sarebbe rimasto a una tensione grosso modo quasi costante, dovuta essenzialmente:
  • per i cavi principali, al peso del ponte.
  • per i cavi secondari, alla trazione iniziale a loro assegnata per precomprimere lo scafandro.

In realtà l'iniezione dei cavi è una procedura difficile e molto spesso inadeguata. Se l'iniezione è parziale ciò lascia i cavi all'aria e li espone agli attacchi della corrosione. Inoltre diventa molto difficile prevedere il comportamento di un sistema parzialmente iniettato e parzialmente no.

Dato che l'idea principale di usare il calcestruzzo per proteggere l'acciaio dalla corrosione era sbagliata, la corrosione dei cavi, dapprima secondari, poi principali, iniziò praticamente sin da subito. Nel 1992 (circa 25 anni dopo la costruzione), fu trovata una estesa corrosione negli stralli del sistema bilanciato 11, e secondo svariate fonti, anche in quelli 9 e 10. Ma fu riparato solo il sistema 11.

Uno degli aspetti deleteri del sistema Morandi, è che se da una parte lo scafandro non serve a proteggere un bel nulla, esso serve molto bene a rendere difficile la ispezione dei cavi, che sono sepolti dentro lo scafandro e sostanzialmente inaccessibili.

Il crollo del viadotto Morandi è stato causato molto probabilmente dalla forte sottostima della corrosione dei cavi principali.

Corrosione nei cavi: cosa provoca?

Immaginando che si corrodano per primi i cavi più esterni, quelli secondari, la prima cosa che succede è che la precompressione del calcestruzzo (dello scafandro) sparisce. Questo provoca seri problemi? No, niente affatto. Infatti sono i cavi principali a sostenere tutto, e possono anche tranquillamente sostenere il peso dei veicoli, che sono una cosa modesta rispetto all'enorme peso del ponte.

Invece, i guai seri cominciano quando i cavi principali cominciano a corrodersi. Essi, lo abbiamo visto, tengono tutto. Sono 352 trefoli. Prima si corrode uno, e cede. Poi un altro, e cede. Poi un altro ancora, così per 50 anni.

All'aumentare della corrosione dei cavi principali, il ponte-biscotto si sarebbe gradualmente caricato di sforzi maggiori, andando pericolosamente a raggiungere la zona delle impossibili trazioni, o delle insostenibili compressioni. Infatti la precompressione del biscotto sarebbe diminuita, mentre al tempo stesso la forza di sostegno alle sue estremità sarebbe diminuita anch'essa. Contemporaneamente, lo sforzo  della parte residua (ovvero non corrosa) dei cavi principali sarebbe aumentato, dai 70 Kg/mmq iniziali, su, su, e ancora su, verso i 170 che erano il limite fisico del sistema.

Finché alle 11:36 del 14 Agosto 2018 si è raggiunto il limite. E il sistema è esploso come una costruzione fatta di grissini e biscotti, quale essa era.

Possiamo davvero pensare di ricostruirlo eguale, o di conservarne la memoria come se fosse stata un'opera geniale?

Io non credo.



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(1) "En efecto, en el viaducto de Polcevera, incluidos lor tirantes, ha sido puesta en obra una cantidad de acero (per m2 de tablero), en paridad de luz, como ya se ha indicado, de casi 1/3 de la empleada en el puente de Benford; esto, habiendo cuidado mucho las diferents tensiones maximas en las que dicho acero esta solicitado en estas dos obras de arte"
 Forse "Benford" è un refuso e in realtà è Bendorf
Morandi R., Viaducto sobre el Polcevera, en Génova-Italia, Informes de la Construccion, Vol. 21, n° 200, Mayo 1968 ".
(2)  "The structure has been designed to show maximum efficiency under the applied loads which will act on it, and this has saved a considerable amount of material".
Morandi R., Viaducto sobre el Polcevera, en Génova-Italia, Informes de la Construccion, Vol. 21, n° 200, Mayo 1968 " (riassunto dell'articolo in inglese)
(3)  "mientras el entramado resulta praticamente privado de armadura longitudinal, e exception del extremo del salto y de la zona proxima a los apoyos intermedios".
Morandi R., Viaducto sobre el Polcevera, en Génova-Italia, Informes de la Construccion, Vol. 21, n° 200, Mayo 1968 "








venerdì 21 settembre 2018

Sul crollo del viadotto Morandi: alcune domande

1. La prassi seguita da decenni è stata quella di accettare un "certo livello" di degrado nei ponti (e non solo, tutti hanno visto ferri di armatura corrosi), perché non reputato pericoloso. Questa prassi è accettabile ?

2. Alcune delle conclusioni alle quali sono arrivati in passato valenti esperti sono basate su regole di calcolo "leggi empiriche" che consentivano di estrapolare per decenni. Non solo "sono valide quelle formule", ma, "è un modo corretto di fare ingegneria, questo?". Meglio ancora: è questa l'Ingegneria Civile? E' solo questo? Formule, estrapolazioni, diagrammi a colori?

3. E' stato detto che non si disponeva del tutto di certe conoscenze (degrado del calcestruzzo in ambiente marino). E' vero? Esistono infatti sia testi che opere che indicano il contrario (Dei Poli Crolli e Lesioni di Strutture, 1942, Ponte Arrabida, Porto, 1965, tutto verniciato per proteggerlo).

4. Appare che il risparmio di materiale sia stato uno dei criteri seguiti dal progettista (infatti se ne fa merito quando racconta le caratteristiche del suo progetto). E' un approccio seguito ancora oggi? E' questo un corretto modo di fare ingegneria - ieri - e oggi? Possono le soluzioni progettuali essere dettate prevalentemente dalla necessità di risparmiare il materiale? Come coniugare in modo accettabile l'esigenza di realizzare opere al giusto costo, e l'esigenza di salvaguardare sempre e comunque la popolazione civile?

5. E' stato evidenziato molto opportunamente (qui) che in realtà ogni cavalletto non aveva 4 "stralli", ma solo due cavi, uno per carreggiata. Ciò assimila il cavalletto di Morandi ad un arco teso che anziché scoccare la freccia (la pila) la incamera. Al netto del fatto che secondo alcuni all'epoca non esisteva il concetto di struttura robusta e ridondante (una cosa tutta da verificare consultando la bibliografia italiana ma soprattutto estera, ed esaminando strutture antecedenti), possiamo accettare che un'opera di Ingegneria Civile sia una molla pronta a scattare, oggi, e potevano accettarlo ieri, in Italia ed all'Estero?

6. Fino a che punto e con quali precauzioni possiamo fidarci - oggi - dei nostri metodi e dei nostri sistemi di calcolo, anche in merito alla diagnostica? Ci vuole o no qualcosa in più?

7. Quando possiamo fidarci di un materiale o di una tecnica innovativa? Che cautele dovremmo adoperare, oggi, non ieri? Le regole attuali ci tutelano a riguardo ?

8. Le leggi attuali sono pertinenti rispetto a quanto è avvenuto? In altre parole, aiutano ad evitare casi come questo (pensando a tutta la catena dei fatti e non solo al progetto)? Ad esempio: ha senso dire che la vita utile è di 50 anni e non prescrivere alcun obbligo al termine dei cinquanta anni?

9. Una maggior cautela di progettista avrebbe aiutato l'opera di Morandi? Questa cautela era dovuta o no? Ed oggi, nel nostro lavoro, questa cautela è dovuta o no? Esempio: assumere che siccome il 20% soltanto dell'area dei cavi è corrosa mentre secondo i calcoli ne basta il 50% è un ragionamento corretto come Ingegnere Civile? 

10. Quanta "fallacia genetica" c'è nella storia del viadotto Morandi? Ovvero, quanto ha giocato la intangibilità della figura di Riccardo Morandi e della sua opera nella storia di quel viadotto? Questa intangibilità (non il ricordo, che è altra cosa) è cultura o sottocultura ? E' utile che ci siano figure intoccabili?

11. Ingegneria Civile è "memento audere semper" (come qualcuno ha sostenuto facesse Morandi, qui)? Che concezione ingegneristica sta dietro una tale idea, che è stata espressa oggi, non nel 1936?

12. Qual è il compito della Ingegneria Civile? Quali sono le priorità di un Ingegnere Civile?

13. E' forse tempo di avere anche noi, come i medici, una specie di giuramento di Ippocrate? che regole deontologiche dovremmo applicare nei casi dubbi?


A. Come esce il Ministero delle Infrastrutture da questa vicenda? Possiamo fidarci di quelle strutture ministeriali? Hanno titolo a decidere?

B. Quali sistemi di controllo sono mancati che avrebbero potuto scongiurare non solo il crollo ma anche tutti i problemi già certamente provati dai documenti sin qui usciti? E che figure professionali avrebbero dovuto esercitarli, con quali specifiche competenze?

C. Cosa ha indotto nei tecnici deputati la certezza che non sarebbe successo nulla? La loro pratica ed esperienza ha agito in senso positivo o in senso negativo? Perché non c'è stato nessuno che abbia scritto chiaramente che il ponte era pericoloso (che lo fosse è ormai già stato provato dai documenti già usciti, e non solo dal crollo) ? 

D. Se sarà provato - come teoricamente possibile ([15], [16]) - che è stato un fulmine a far esplodere uno "strallo" , o se sarà provato che la costruzione non rispettava il progetto (Secolo XIX) - allora tutto il resto che è venuto fuori e sta venendo fuori è ininfluente?

E. Possiamo accettare che le competenze necessarie per assumere ruoli dirigenziali strettamente legati al controllo ingegneristico siano coperti da inesperti? E' mancato, sta mancando e mancherà, a riguardo, un autorevole intervento di chi in teoria dovrebbe rappresentare non solo gli interessi degli ingegneri, ma più ancora quelli del Paese?

F. Possiamo considerare autorevoli i nostri rappresentanti del CNI, ovvero, quello che dicono e come lo dicono è sempre appropriato ? Se no: come possiamo fare a cambiarli?

G. E' sufficiente una laurea in ingegneria, senza ulteriori specificazioni, ad occuparsi di ingegneria strutturale? E di Architettura?

H. Quali sistemi di controllo hanno messo in piedi gli Ordini sui loro iscritti, relativamente al problema delle competenze? In attesa della riforma del settore (attesa lunga) cosa potrebbero fare gli Ordini Professionali, e non hanno fatto? E lo Stato: cosa potrebbe fare, e non ha fatto ?

I. Il sistema dell'aggiornamento professionale attualmente praticato come obbligatorio, funziona? E' pertinente? E' utile? A chi giova?

L. L'ingegneria strutturale, in Italia, è una cosa seria?




martedì 18 settembre 2018

Le strane regole deontologiche degli ingegneri



Dopo il crollo del viadotto Morandi si sono aperte numerose questioni che necessitano di attente riflessioni e di drastici cambiamenti. Una di queste è il codice deontologico degli ingegneri.

   Esaminando le regole deontologiche degli ingegneri, si ha la sensazione che siano fatte più che altro per tutelare i committenti e per evitare che la categoria possa mai essere messa in discussione, obiettivo raggiunto frapponendo una nutrita serie di inutili paletti deontologici alla attività professionale.
   Il codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri, ed attualmente in vigore (reperibile qui), è una lettura sorprendente per chi non l'abbia ancora fatta e voglia calare queste regole nella trafila degli accadimenti che hanno preceduto il crollo del viadotto Morandi.
   Invano si cercherebbe una regola, da mettere certo tra le prime, che imponga all'ingegnere che per qualsiasi motivo sia venuto a conoscenza di una situazione pericolosa di darne immediata notizia alle autorità competenti. Al contrario, si trova una fitta rete di paletti che induce a più miti consigli chi avesse mai un simile desiderio.
   Io credo che questo codice deontologico debba essere immediatamente cambiato. Il primo dovere di un professionista competente che si imbatta in una situazione pericolosa, per qualsivoglia motivo, anche al di fuori di un incarico professionale,  deve essere dare immediata notizia del potenziale pericolo (anche ad una autorità pubblica, non solo ai proprietari o responsabili). E dovrebbe essere messo a punto un registro di queste segnalazioni. L'esistenza di una segnalazione inascoltata dovrebbe essere aggravante per i responsabili in caso di crollo.
   Non si può ragionare in termini di concorrenza quando c'è di mezzo la sicurezza. Invece, il codice dà proprio questa impressione.
   Ancora oggi manca, nella formazione dell’ingegnere, e nei suoi doveri deontologici, una indicazione sul comportamento da assumere quando per fondati motivi ritenga che esista un qualche pericolo, anche in assenza di uno specifico incarico. Solo al punto 18 dell’attuale codice deontologico del Consiglio Nazionale degli Ingegneri (dico diciotto) si legge (corsivo mio)
L’ingegnere è personalmente responsabile della propria opera nei confronti della committenza e la sua attività professionale deve essere svolta tenendo conto preminentemente della tutela della collettività.
Mentre, ben prima nel documento, è ben chiarito che un professionista non può mettere in cattiva luce un collega o la categoria. Nella sezione relativa ai doveri, al primo punto leggo (par. 3.1):
L’ingegnere sostiene e difende il decoro e la reputazione della propria professione.
Cosa che infatti sta accadendo in questi giorni, in cui il mondo professionale sembra più interessato alla difesa corporativistica della professione che all'accertamento della verità dei fatti. Ed ancora leggo:
L’ingegnere deve mantenere il segreto professionale sulle informazioni assunte nell’esecuzione dell’incarico professionale.
L’ingegnere è tenuto a garantire le condizioni per il rispetto del dovere di riservatezza a coloro che hanno collaborato alla prestazione professionale
E leggo ancora:
L’incarico professionale deve essere svolto compiutamente, con espletamento di tutte le prestazioni pattuite, tenendo conto degli interessi del committente.
E bisogna stare molto attenti a criticare i colleghi:
L’ingegnere deve astenersi dal porre in essere azioni che possano ledere, con critiche denigratorie o in qualsiasi altro modo, la reputazione di colleghi o di altri professionisti.
Ed inoltre:
In caso di subentro ad altri professionisti in un incarico l’ingegnere subentrante deve fare in modo di non arrecare danni alla committenza ed al collega a cui subentra.
Come sarebbe possibile per il professionista Rossi, porre rimedio ai guai del professionista Verdi? E per quale motivo se Verdi ha fatto gravi errori, si è dimostrato incompetente o temerario, Rossi dovrebbe evitare di danneggiarlo? Chi tutela questa regola, gli ingegneri competenti o quelli incompetenti (che esistono)?
   Questo codice deontologico tutela la categoria ed i committenti, non tutela in modo sufficiente i cittadini. Esso è incompatibile con uno Stato moderno, dove la trasparenza e la circolazione delle informazioni sono fondamentali. 


domenica 12 agosto 2018

Un nuovo inizio

Chi ha per molto tempo studiato una disciplina, passando ore ed ore sui libri, sperimentando nuove soluzioni, rendendosi conto di come funzionano quelle esistenti, ed approfondendo la comprensione delle regole che governano lo svolgersi di certi fenomeni, può avere la stessa autorevolezza e lo stesso identico diritto di parola, lo stesso peso specifico di chi, di quella disciplina, parla solo per aver orecchiato qualcosa qui e là, o magari letto su internet nei tre mesi precedenti?

Anche Homer Simson, se segue i corsetti di aggiornamento, può diventare un "ottimo professionista".


Nel nostro Paese, in questi tempi, sembra si siano smarriti i più elementari concetti di normale intelligenza, e così assistiamo a esperti medici immunologi costretti a difendersi da una massa di aggressioni sui social, ministri che coniano locuzioni contraddittorie come "obbligo flessibile", semi analfabeti che discettano di spread e di PIL, esperti in nulla che danno la linea a masse di persone disinformate.

La tendenza dura da decenni, ma il crescendo non ha sosta.

Qualcuno già sostiene che il problema è la democrazia, e si appresta a dimenticare le disastrose esperienze del '900, forse del resto neppure conosciute, riecheggiando slogan, idee, proposte e persino atteggiamenti che già comparvero ottanta o novanta anni fa, ignaro del disastro che poi seguì.

Forse la soluzione al dilemma è nella sostanziale differenza tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. La democrazia diretta è la incompetenza al potere. Miele per chi dispone degli strumenti per pilotare le masse ignoranti. D'altro canto, la democrazia rappresentativa in Italia è in crisi perché i rappresentanti hanno rappresentato se stessi, i loro parenti ed amici, non i loro elettori. Con risultati spaventosi, ovvero con lo slittamento verso forme di democrazia semplicistiche e sostanzialmente dannose.

L'arraffamento della Cosa Pubblica per utile personale è talmente diffuso, nel Paese, che non si poteva pensare che i Rappresentanti ne fossero immuni. Ma, almeno, questi Rappresentanti, una volta erano competenti, mentre da decenni in qua non lo sono più.

Io credo che sia ormai necessaria una crisi spaventosa come già in passato, affinché vengano ripristinate le corrette linee di precedenza, e le numerose persone serie e preparate nei loro rispettivi campi possano finalmente avere un peso nella decisione delle regole e della loro applicazione.

Una crisi che faccia comprendere a chi ha dimenticato che la competenza è fondamentale, alcuni semplici concetti, e che ripristini l'ovvio: le persone incompetenti devono tacere se dell'argomento di cui si parla non hanno conoscenza.

Così, in un battibaleno, l'ottanta per cento dei posti dovrebbe essere riassegnato, giacché siamo pieni  di persone incompetenti nei posti di comando.

L'ingegneria non fa eccezione, ma questo discorso non è specificamente legato al mondo ingegneristico, o ai Ministri per le Infrastrutture, o alle altre strutture dello Stato deputate alla cura ed emanazione delle normative.

Ormai questo discorso riguarda tutti i settori del Paese. E' urgente che una grave crisi porti a comprendere che non si può affidare la complessità alle sovra semplificazioni, agli slogan, e che non possiamo più permetterci di prendere a calci nel sedere le nostre menti più brillanti.

Solo uno shock potrà ormai far comprendere a quanti credono nelle soluzioni semplicistiche che le loro soluzioni sono inadeguate e che peggiorano la situazione. Un grave shock, che però, come la Storia insegna, potrebbe anche portare a qualcosa di molto brutto. Sono tra quelli che pensano che la mina del debito pubblico stia per scoppiare, e che in questo apparentemente cheto Paese possano nuovamente scatenarsi forze bestiali e prive di controllo.

Non ci sono politici in vista che siano realmente credibili. Ma ci sono moltissime persone per bene e competenti che potrebbero fare bene al Paese, e che, nel momento del disastro, potrebbero finalmente essere chiamate a svolgere un ruolo, come del resto avvenne dopo il 25 Aprile 1945.